giovedì 8 marzo 2018

8 Marzo: chiamatemi strega.



Non importa chi sono. Non importa come mi chiamo. Potete chiamarmi Strega. Perché tanto la mia natura è quella. Da sempre, dal primo vagito, dal primo respiro di vita, dal primo calcio che ho tirato al mondo. Sono una di quelle donne che hanno il fuoco nell’anima, sono una di quelle donne che hanno la vista e l’udito di un gatto, sono una di quelle donne che parlano con gli alberi e le formiche, sono una di quelle donne che hanno il cervello di Ipazia, di Artemisia, di Madame Curie. E sono bella!




 Ho la bellezza della luce, ho la bellezza dell’armonia, ho la bellezza del mare in tempesta, ho la bellezza di una tigre, ho la bellezza dei girasoli, della lavanda e pure dell’erba gramigna! Per cui sono Strega. Sono Strega perché sono diversa, sono unica, sono un’altra, sono me stessa, sono fuori dalle righe, sono fuori dagli schemi, sono a-normale… sono io! Sono Strega perché sono fiera del mio essere animale-donna-zingara-artista e … folle ingegnere della mia vita.Sono Strega perché so usare la testa, perché dico sempre ciò che penso, perché non ho paura della parola pericolosa e pruriginosa, della parola potente e possente. Sono Strega perché spesso dò fastidio alle Sante Inquisizioni di questo strano millennio, di questo Medioevo di tribunali mediatici e apatici. Sono Strega perché i roghi esistono ancora e io – prima o poi – potrei finirci dentro.


(Un bellissimo Monologo di Barbara Giorgi scritto per Franca Rame)
Fonte: http://www.iltempiodisophialuna.it

giovedì 1 marzo 2018

Ricorda con rabbia






(Racconto che ha partecipato al 6 Nazioni letterario per ATE. Altri racconti qui)









Riconosce subito il Dinefwr Castle e il suo cuore lo incoraggia con un doppio battito che sembra la serpentina di un pattinatore sul ghiaccio: un’extrasistole celebra il ritorno nel luogo della sua giovinezza. Ferma il suv sul lato della strada e si concede una pausa. Inquadra il castello col suo Galaxy S8, fa per scattare una foto poi cambia idea. Quanti anni sono passati? Era il loro regno. La cornice ideale per le battaglie, per gli scontri furiosi. Qualche anno dopo per i loro giochi crudeli. Più di una cicatrice, visibile o invisibile, può certificare il suo diritto a essere lì. Sì, lui c’è. Suo fratello? In ritardo, o chissà dove. Sente nascere una rabbia sorda che si alimenta del suo malumore. Prende di nuovo in mano il telefono, compone il numero: ascolta con crescente irritazione i segnali di linea libera fino a ché non si inserisce la voce registrata della segreteria telefonica. Allora lancia lo smartphone sul sedile, mette in moto e si prepara a entrare a Llandeilo, la piccola città dove è nato cinquantasei anni prima.

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Lo trova nel pub, mezzo addormentato davanti una pinta di birra, nell’angolo più freddo del locale. Scruta guardingo gli avventori. Non sembrano riconoscerlo ma lo stanno guardando. Tutti. Lui invece identifica un paio di visi, gente della sua età. Potrebbe ricordarne persino i nomi se si concentrasse, se riuscisse a non sentire su di sé quegli sguardi vuoti, inespressivi e vagamente ostili. Nessuno parla, il silenzio cala come una coltre funebre. Pochi attimi e si girano, con indolenza ricominciano a discutere tra loro. Mervin si avvicina al tavolo vicino alla finestra, dopo un momento d’esitazione si siede al suo fianco. Finge un colpo di tosse. Ne finge un altro. Finalmente si decide ad afferrargli un braccio, lo scuote.

«Chi diavolo rompe le palle?» Gira il viso verso di lui, lo riconosce. Sembra deluso.

«Sei tu.»

Fa per rimettersi a dormire ma Mervin lo precede e lo tiene per una spalla.

«Che accoglienza commovente! Ci dovevamo vedere al castello, ricordi? Un’ora fa.»
Llyr si stropiccia gli occhi, poi fa un sorso della sua birra. Bestemmia. È calda, definitivamente calda. Si alza, barcolla appena, si dirige verso il bancone. Poco dopo torna con una pinta appena spillata che trabocca. Si volta lentamente verso il fratello.

«Cazzo sei venuto a fare?» chiede con un ghigno che gli deforma la bocca.
Mervin si fruga in tasca, afferra il portafoglio, lo apre, estrae due biglietti che con gesto plateale deposita sul tavolo.

«Domani si va a Dublino. Ci vediamo Irlanda Galles di rugby insieme. Che ne dici? Dai, ti porto via da questa merda di paese… Che diavolo ci fai ancora qui?! Perché ci dev’essere un motivo per cui tu non vuoi schiodare il tuo sederino da Llandeilo.»


Llyr si lascia andare a un largo sorriso mentre sembra osservare il soffitto con particolare interesse, poi scatta fulmineo afferrandogli una fezza di capelli, fingendo di voler spingere giù la sua testa, farla sbattere con violenza contro il tavolo.

«Sei tu rotto in culo che se n’è andato a Dublino a fare il fighetto» gli sibila invece a un orecchio. Cessa di tenerlo per i capelli e prende ad accarezzarli quasi con dolcezza.

«Sei tu che più di trentacinque anni fa mi hai lasciato col nostro vecchio che tirava le cuoia mentre ma’ non riusciva ad alzarsi dal letto e vomitava gin e sangue. Te ne sei fregato di noi, delle tue cazzo di radici, della miniera dove papà aveva lasciato poco a poco pezzi di vita e che alla fine quelli come te hanno chiuso: sei scappato come un coniglio lasciandomi in questo buco a vedere lui che marciva. Pensi possa dimenticarlo, anche solo per un momento?»


Continua a parlargli ma si è scostato da lui e ha smesso di accarezzargli i capelli. La sua voce non è più un sussurro, piuttosto assomiglia una cascata che rimbomba.

«Coi tuoi completi di sartoria e le scarpe italiane sei un pesce fuor d’acqua qui: inizi pure a puzzare. Ficcatelo in testa, fratellone!»


Nessuno dentro al pub li guarda direttamente. Eppure non possono non aver sentito. Continuano a parlare, solo a voce più bassa. Poi… dal nulla qualcuno inizia a cantare. Presto diventa un coro, dapprima sommesso, poi sempre più deciso, sicuro. Si uniscono quasi tutti. Cantano in gaelico; un canto di cui ha un vago ricordo che comunque non vuole a nessun costo riesumare. Ora lo guardano.
Qualcuno di quei bastardi deve averlo riconosciuto, alla fine.

                                                                 
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Ha ingoiato il rospo. Ha fatto una serie di respiri profondi come gli ha consigliato il terapeuta e si è rifugiato in bagno. Si è attaccato al rubinetto del lavabo facendosi scivolare in bocca due pastiglie di Xanax. Il panico è indietreggiato, l’attacco si è fatto più blando, è quasi svanito. Ora fissa la sua immagine allo specchio: riesce a stento a riconoscersi. Ha il viso contratto, gli angoli degli occhi frastagliati da piccoli solchi, il bianco della sclera è invaso da capillari gonfi di sangue e di stanchezza. Non ha dormito che un paio d’ore, ha passato la notte a guidare e a guardare le stelle dal ponte del traghetto e a ricordare com’era. Cosa voleva dire nascere, crescere in questo buco. Ecco ora di nuovo lo sa. Senza che i ricordi edulcorati dal tempo lo possano ingannare, libero dalle suggestioni della sua adolescenza e della prima giovinezza. Si è ripreso completamente. Adesso è pronto. Esce dal bagno, cammina lentamente verso il tavolo dove accanto al fratello si sono seduti un paio di uomini. Gli sembra vagamente di riconoscerli, invecchiati, appesantiti… ma non importa: sono fantasmi fuoriusciti direttamente da un buco temporale che non lo interessa più. Perciò lascia scivolare le braccia foderate dall’ottima stoffa del suo completo di sartoria fino a ché le mani si impossessano del bordo del tavolo. Guarda Llyr, ignorando i volti beffardi dei suoi amici.

«Voglio vedere il casolare di nostro padre. Sono vent’anni che non ci metto piede. Il vecchio l’ha lasciato a entrambi. Accompagnami. Siamo di strada; poi, se ci va, andremo a Dublino.»

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La notte li protegge. I fari del suv illuminano la strada che si ritrae, indietreggia, li accoglie benevola. L’abitacolo è invaso dalla musica degli Stereophonics. Nessuno di loro ha detto una parola da quando hanno lasciato Llandeilo. Mervin guida sicuro, anche se la stanchezza lo sta a poco a poco sommergendo. Ha smesso di lanciare occhiate al fratello e di rifiutare le lattine di birra che gli offre con evidente sadico piacere. È praticamente astemio e lui lo sa bene.

«Ferma questa specie di falso suv… Fermati!» gli grida d’improvviso.

Accosta veloce appena vede una piazzola pensando che Llyr abbia bisogno di rigettare. Abbassa lo stereo e attende col motore acceso suo fratello che invece sta pisciando poco più in là. Quando ha finito si avvicina di nuovo al fuoristrada ma dalla parte del guidatore. Apre lo sportello: «Forza, fammi guidare questo cazzo di fuoristrada fasullo. Sullo sterrato si cagherebbe addosso. Ma sull’asfalto va decentemente. Dai fratellone, muovi il culo.»

«Sei ubriaco Llyr…»


«E allora? Hai paura che mi fotta la patente?»

Ride suo fratello mentre prende il suo posto e manovra il cambio. Parte bene, poi sulla curva successiva sbanda un poco verso il centro della carreggiata.

«Llyr…»


«Muto! E cambia musica, Cristo! Gli Stereophonic hanno azzeccato un solo album, il primo; poi hanno finito la benzina, si sono dati alle ballate e nessuno ne ha scritte di più noiose delle loro. Hanno suonato la musica più ordinaria della storia! Ce l’hai l’album dei Reptile Ranch? Post punk anni ottanta della scena di Cardiff, liscio, potente, onesto?!»


«Non li conosco nemmeno…»


Llyn si lascia sfuggire una bestemmia e accelera verso la notte. Le stelle, piccoli addobbi appiccicati alla volta celeste, brillano tenaci decorandola per loro.

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Sono giunti al casale; visto da fuori, alla debole luce della luna che nel frattempo è sorta, imbiancando di luce le cime dei monti, appare disfatto, cadente.


«Llyr, non possiamo fermarci molto… Ho prenotato il traghetto da Holyhead, parte alle 02.30. Arrivo a Dublino tre ore dopo.»


Suo fratello non risponde. Sta cercando qualcosa nelle tasche dei jeans. Trova le chiavi, le alza facendole tintinnare e si dirige barcollando verso l’ingresso della costruzione, trascinandosi dietro la busta di plastica con le ultime lattine di birra. Mervin lo segue a pochi passi di distanza. Dentro li accoglie un odore penetrante di chiuso e di muffa.

«Ti ricordi che diceva pa’?»


Marvin si allenta la cravatta e cerca d’individuare dove sia il fratello. L’umidità che cola dalle pareti lo ha fatto starnutire un paio di volte.


«No Llyr, cosa?»


Deve attendere qualche minuto prima che Marvin termini di spostare un pesante ciocco di legno verso il grande camino e lo circondi di sterpi e rami secchi. L’umidità che ha impregnato la legna rende difficile l’accensione del fuoco che però d’improvviso divampa. Per qualche secondo entrambi fissano le fiamme risucchiate dalla cappa che danzano davanti a loro.


«Cosa diceva? La verità: che gli inglesi e gli irlandesi ci hanno fottuto. Hanno colonizzato il sud facendo sparire tutto quello che gli ricordava la nostra cultura tradizionale. Lui nemmeno considerava Cardiff e il sud come il vero Galles! Già ai suoi tempi nessuno a est di Swansea parlava più in gallese. E come le avevano ridotte le nostre belle valli? Seppellite quasi completamente da montagne di residui, nere di carbone; le chiamavano Slag heap!»


«Llyr, io non sono diventato irlandese solo perché vivo a Dublino! Ficcatelo in quella testa di mulo!» gli risponde gridando.

                                                                 


Indubbiamente il calore del fuoco e i giochi di prestigio delle fiamme poco a poco hanno alleggerito l’atmosfera opprimente. Mervin si è lasciato convincere a fare un sorso di Butty Bach e ricorda di aver pensato, mentre beveva, che la birra, più di tutti gli altri alcolici che conosce, ha un sapore orribile. Tuttavia ha continuato a berne, piccoli sorsi, anche se presto si è riscaldata. Ora ha tre o quattro lattine vuote al suo fianco, la testa leggera, strani pensieri che fluttuano senza controllo.
Llyn è silenzioso da parecchio tempo. Un paio di volte si è alzato ed è uscito. Per pisciare probabilmente. La terza volta rientra rabbrividendo e si ferma alle spalle del fratello.


«Fratellone, il tuo fottuto traghetto starà partendo ora.»


«Già.»


«Marvin dimmi una cosa: perché hai voluto vedere il casolare?»


Lui allunga la mano per afferrare una lattina, per scuoterla, per bere un ultimo sorso. Il fuoco sta lentamente morendo, la brace sembra ribollire. Fa un gesto vago con il braccio prima di rispondere.


«Volevo proporti una cosa.»


«E quindi?»


Non vede la sua espressione. Llyn è alle sue spalle, ancora in piedi.


«Facciamone qualcosa, prima che cada a pezzi.»


Lo sente sospirare.


«Era il sogno di papà. Ci ha messo una vita per costruirla. C’è morto per tirarla su.»


«Lo so. Ma guarda il tetto: altri cinque o sei anni e crollerà. Che senso ha lasciarla andare così?»


«Vuoi farne un albergo?»


«Un resort. La posizione è ideale. Pochi chilometri è inizia il parco nazionale di Brecon Beacons. Però qui non abbiamo nessun vincolo da rispettare. I soldi per ristrutturare li metto io. Tu entri in società. Al 50%».

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Llyn è sceso nelle cantine. Un paio di minuti ed è risalito con una bottiglia di Penderyn e un paio di bicchieri. Versa l’whisky, porge uno dei bicchieri al fratello e si siede al suo fianco. Per un po’ restano a osservare la brace che si spegne.

«Era dura per te, vero?»


Marvin scuote la testa. In qualche modo si aspettava questa domanda.


«Non puoi nemmeno immaginare quanto.»


«Io non ti ho difeso.»


«Nemmeno una volta. Hai lasciato che mi massacrassero. Non potevi avere un fratello frocio. Un invertito. Ci morivi dalla vergogna.»


«Era difficile per me. E comunque te ne sei andato e mi hai lasciato in mezzo alla…»


«Me ne sono andato e basta!»


«Eri il primogenito. Dovevi rimanere.»


«Mi avevano massacrato per due anni! E ora che il vecchio stava morendo cosa avrebbero fatto? Avrebbero smesso di picchiarmi? Avrei letto nei loro occhi qualcosa di vagamente simile alla pietà? Sarei stato tollerato, compatito, commiserato? No grazie. Mi dispiace, ti ho lasciato da solo ad affrontare tutto ma non potevo fare altro.»

                                                                        
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Si sente spossato. Non è abituato a bere. Inoltre l’alcool sta interagendo in modo inaspettato con l’ansiolitico disorientandolo. Quando per un attimo chiude le palpebre, la mente piomba in una specie di dormiveglia e figure e colori prendono a fluttuare come negli attimi che precedono il sonno. Con uno sforzo che gli sembra sovrumano riesce a riaprire gli occhi: si trova davanti quelli del fratello che lo scrutano beffardi.


«Perché sei qui realmente? Per comprare il mio perdono?»


Fa fatica a rispondere. Non vuole più combattere, non sogna che l’oblio.


«Llyn, non sai niente di me, degli ultimi anni. Mi hanno buttato fuori dalla società che avevo creato. Cacciato via in una settimana. Ho continui attacchi di panico. Da sei mesi vado da uno strizzacervelli che mi imbottisce di psicofarmaci. La notte non dormo, ho incubi continui. A Dublino non ho quasi più amici e la minima voglia di fare sesso né tanto meno avere una relazione con qualcuno. Sono alla frutta. L’unica cosa che ho sono i soldi. Mi hanno licenziato con una buonuscita principesca: mi hanno comprato. Voglio mollare tutto. Voglio investire parte dei soldi qui. Insieme a te se ci starai.»


Il viso di suo fratello si fa serio. Sembra riflettere. Poi gli prende delicatamente il bicchiere ancora mezzo pieno di whisky che gli sta scivolando dalla mano e lo poggia sul pavimento.


«Marvin, facciamo così: ora recuperiamo qualche ora di sonno. Tu stai crollando e io ho bevuto l’impossibile. Domani ci sentiamo la partita per radio e decidiamo. Anzi facciamo decidere agli dei del rugby. Che ne pensi?»


«Ma che dici?»


«Vince l’Irlanda? OK maledetto bastardo, facciamo come vuoi tu. Vincono i dragoni? Eh, allora temo che dovrai lasciarmi il tuo suv. Mi servirà per caricarci tutto quello che mi occorre per riparare il tetto, intonacare di nuovo i muri, rimettere a posto il piano superiore. Se ti va potrai aiutarmi. E niente resort: la casa di nostro padre rimane così com’è. Per noi. Che ne dici?»

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Sta filtrando della luce. Sente dei rumori lontani, una voce febbrile che arriva smorzata. Un odore forte e conosciuto. Apre gli occhi e si trova davanti una tazza di caffè ancora fumante. È avvolto da un paio di coperte militari che puzzano di muffa. Afferra la tazza che gli riscalda le mani e si gira verso la fonte dei rumori e della voce che continua ad affannarsi nel raccontare qualcosa.
Suo fratello è seduto con i gomiti appoggiati su un grosso tavolino di legno; sembra assorto. Davanti a lui un vecchio radio-registratore diffonde la radiocronaca della partita.
Marvin fa il primo sorso di caffè completamente privo di zucchero e rabbrividisce.


«Chi sta vincendo» chiede disinvolto.